
Un abbraccio forte, Luciano.
Solo un disattento può evitare un forte commovimento dopo aver concluso la lettura di Un abbraccio forte, Luciano, libro curato da Maria Cristina Locori. Attraverso 89 lettere inviate dalle rive del Don ai suoi famigliari, amici e parenti, Luciano, zio mai conosciuto di Cristina, mostra senza un filo di retorica né un lamento né una recriminazione cos’è la guerra vista, vissuta dalla parte del soldato. Lettera dopo lettera si dipana l’autoracconto sobrio e appassionato di questo ragazzo, appena ventenne, scaraventato sul fronte russo durante l’ultima guerra. La commozione non è causata dalla durezza della sua condizione, dalla lancinante lontananza dai suoi cari e dall’Italia, dall’esser stato arruolato in maniera inconsapevolmente coatta nel Corpo degli Alpini. No. Il tramestìo suscitato nella testa e nel cuore del lettore è causato da lui, Luciano, un ragazzo straordinario. Bello, buonobuonobuono, dolce, forte, dignitoso, coraggioso, orgoglioso, riservato, di animo nobile, affettuoso oltre ogni immaginazione, onesto, sincero, magnanimo. Un ragazzo che tutti si auspicherebbero come figlio o cercherebbero come amico e qualunque donna vorrebbe sposare.
Luciano è sul fronte, e quasi quotidianamente scrive ai genitori in Italia, agli amici, ai parenti. Scrive su carta per posta aerea, quasi carta velina, con quello che può: una penna intinta nell’inchiostro verde o blu, una matita, che lasciano una traccia leggera, che spesso trapassa la carta e compare sulla faccia opposta svaporando e rendendo la missiva quasi illeggibile. Cristina, con pazienza e tenacia, ha ‘restaurato’ i manoscritti e li ha restituiti ad una lettura. Colpisce, in questa, l’ossessiva ripetizione di una frase di Luciano ai suoi: qui tutto bene, il morale è alto, e conclude immancabilmente con “un bacione e un abbraccio forte forte”. Ma forse il morale non è sempre così alto; lo capiamo dalle sue richieste: Luciano nelle sue lettere prega di mandargli un pezzo di sapone, qualche sigaretta, qualche lametta, fogli di carta per scrivere e, soprattutto, un coltello con l’apriscatole. Oggetti non di lusso ma di scarna sussistenza. Nessuna traccia di quei lamenti o pur giustificatissimi piagnistei che regolarmente riempiono i diari dei soldati in guerra, siano essi in trincee o in attendamenti.
Nessun tentativo di suscitare compatimenti: Luciano è orgoglioso di essere alpino (anzi, ‘alpinaccio’), teso a far bene il proprio dovere, è soldato ma non militarista, compagnone coi suoi commilitoni (che poi sono diventati veri amici), sollecito per la tranquillità dei genitori che temono per la sua salute e incolumità, affettuosissimo verso l’adorata mamma (‘mammina’, la chiama), interessato alle attività dei fratelli, amici, parenti lontani quasi fossero loro sul fronte russo immerso nella neve e non lui. Le lettere e i pacchi che arrivano dai genitori sono la sua forza, la sua linfa per andare avanti: l’attesa è spasmodica e dignitosa assieme.
Luciano ha anche un’altra risorsa: le lettere affettuose di una imprecisata donna, alla quale ha donato, come lui dice, “la miglior parte del mio cuore”. Il padre, ottuso e meschino, gli ordinerà di troncare la relazione (epistolare), definendo la fanciulla “una donna di strada” sorvolando che, quand’anche così fosse stato, il figlio sul fronte poteva morire da un momento all’altro ed aveva tutto il diritto di avere qualsiasi aiuto di qualsiasi natura per sopportare la precarietà del suo stato e del suo futuro. Luciano, col cuore spezzato, obbedirà e – spirito nobilissimo – chiederà perfino all’arido padre di perdonarlo.
Il caporale degli alpini Luciano Trefiletti, dato per disperso nel 1943, non tornerà più in Italia. Le sue 89 lettere, fortunosamente salvate e restaurate, illustrano meglio di qualsiasi racconto o immagine lo ‘spirito’ della guerra.
Piero Bottali