Introduzione al libro di Simonetta Simonetti dedicato a Leila Farnocchia, arrestata a Camaiore, portata alla scuola di Nozzano trasformata dalle SS in luogo di tortura e prigionia e lì abusata e poi assassinata..
Con tutto il bene possibile
di Andrea Giannasi
Tra i molti dettagli che emergono dagli atti processuali, legati all’orrendo delitto di Leila Farnocchia, uno colpisce lo studioso. Si tratta dell’abbigliamento che la ragazza indossa quando scende a Camaiore per rinnovare la carta di identità. Alcuni testimoni parlano di gonna pantalone, altri di gonna corta, altri di calzoncini. Unito a questo un tascapane, ovvero un piccolo zaino sulle spalle, adatto a trasportare quelle poche cose che lei stessa avrebbe recuperato a casa.
Del resto lei e la madre erano sfollate a Pontemazzori, un piccolo paese sulle colline a sud di Camaiore, e viste le condizioni della mamma, rimasta ferita durante un bombardamento, la cura familiare ricadeva interamente sulle spalle della ragazza che nel 1944 aveva 31 anni. Siamo ad agosto, e il caldo non dà tregua, e Leila, come altri, avrà indossato abiti comodi visto il lungo tragitto che doveva compiere a piedi. Ma l’abbigliamento e lo zaino sulle spalle entrano nel processo come possibile motivo scatenante della furia del militare tedesco che la afferra e la trascina via. “In quel tempo bastava molto meno” afferma l’avvocato che difende la prima delle due imputate alla sbarra con l’accusa di delazione, favoreggiamento, connivenza con i tedeschi.
Se uniamo a questa considerazione il fatto che Leila era una donna, non possiamo non affrontare la pagina della precaria condizione femminile durante i conflitti e cercare di comprendere perché si parla di abbigliamento durante un processo e non del fatto che in quegli anni “la guerra alle donne” era tema collaterale, ma pur sempre dominante.
La seconda guerra mondiale ha visto un coinvolgimento diretto in maniera globale delle donne al conflitto. Lasciate dagli uomini richiamati sui diversi fronti di guerra, vedove – come lo era la madre di Leila Farnocchia – costrette alla fuga, all’abbandono del proprio ambiente familiare. Soggette a prevaricazioni, ricatti, soprusi e oggetto di attenzioni particolari, le donne vissero la seconda guerra mondiale mettendo in campo differenti forme di resistenza al male.
Dall’Ucraina alla Francia, dall’Italia all’Etiopia, dall’Olanda alla penisola balcanica, dalla Corea alla Cina, le mille storie di donne, unite in una complessa rete di diversità e di percorsi individuali, ci aiutano a ricostruire quel processo di sospensione dell’essere, tanto in Europa quanto in Africa e Asia, che pone oggi all’attenzione quanto il patimento vissuto dalle donne sia paragonabile a quello vissuto dal soldato al fronte. La fame, il logorio delle viscere, dei muscoli, dei nervi, la tensione e soprattutto l’attesa della morte uniscono chi scese in trincea a chi nascosta in cantina attendeva la propria sorte.
È importante, anzi crediamo sia fondamentale nell’affrontare la questione, non dimenticare che la donna non fu solo vittima di stupri, violenze di ogni genere, di marchiatura e “inseminazione”, ma anche coloro che vennero risparmiate dall’attacco diretto, vissero in prima persona “la guerra ai civili”. I bombardamenti, i rastrellamenti, le privazioni intime del rapporto con i figli spesso in tenera età e poi la fame. Certa retorica ha costruito una narrazione disegnando la donna intenta in un lavorio costante per barcamenarsi alla ricerca di qualcosa da dare ai figli. Quell’arte dell’arrangiarsi che di artistico non ha nulla, se non la disperazione dell’ultimo colpo di scalpello ad una statua nata male. Tutt’altro e con minor enfasi e celebrazione. In guerra la donna sembra smarrire le proprie multiformi sembianze – del resto esser donna significa assumere costantemente differenti ruoli – perdendo femminilità e identità. Ma seppur mutando, in un mastodontico e dilaniante processo il proprio essere, rimane la “guerra alle donne”.
Perché la donna nel paese straniero occupato non ha sembianze familiari; non assomiglia alla madre, alla sorella, alla fidanzata, ma trasfigura in un corpo del nemico. Il soldato diventa carnefice, bestia pronta a consumare il pasto. L’abuso sessuale ripropone la storia del rapporto tra maschile e femminile, ove la donna, colpevole dei mali dell’Umanità, è relegata in un ambito di inferiorità fisica e morale. Lo stupro da parte del nemico è teso a far scadere “il valore” della donna, riprendendo il concetto medievale di donna come “bene materiale”. Ma c’è anche altro. Il conquistare le donne dell’avversario è gesto teso a dimostrare da una parte la virilità del vincitore, dall’altra l’impotenza e la castrazione figurata del vinto. Si “prendono” le donne e si violano come si prende una città e se ne violano i palazzi del potere. Il dominio è assoluto e compiuto solo quando il seme del vincitore è sparso.
Il maschio battuto è umiliato e la donna diventa campo di battaglia del vincitore che, come avvenne a Nanchino nel 1937, ma anche in Ciociaria nel 1944, acquisisce il diritto di possesso.
Il corpo della donna dunque come oggetto da contendere e possedere.
Il caso di Leila Farnocchia a questo proposito ci impone l’osservazione di quanto avvenne poi in fase processuale quando la ferale condotta dei tedeschi venne adombrata dalla giustificazione nell’abbigliamento di una ragazza di 31 anni. Nel gettare, in fase dibattimentale, il dubbio della provocazione o il sospetto della connivenza con i partigiani, non fa altro che riproporre l’ancestrale colpa dell’essere donna.
Leila Farnocchia ha dunque pagato, prima e dopo il delitto, la propria condizione di donna in guerra. Soggetta allo status di perdita delle proprie libertà durante l’occupazione tedesca e vittima dell’antico retaggio – per altro ancora ben vivo oggi – dell’essersi “esposta”.
Dicevamo della multiforme vitalità femminile che al contempo può essere madre, figlia, sorella, moglie, amante, amica, che si dissolve nel maschio quando questi affronta la questione delle “femmine degli altri”.
Questo dissolvimento non è però solo frutto di ignoranze o antichi retaggi, ma si rinnova ogni qualvolta tornano in primo piano i “primari bisogni maschili”.
In questo evento delittuoso fanno la comparsa altre due donne che di fatto vengono accusate di collaborazionismo. Il termine, se colto nel puro significato, non aiuta a capire le mille sfaccettature prismatiche di colei o colui che furono conniventi con il nemico. Mille ragioni, diverse necessità o paure, ignoranze o convinzioni, mossero i gesti, le delazioni, le esperienze molteplici dei protagonisti e delle protagoniste durante il periodo della guerra civile italiana. Non sono certo giustificabili gli atti che portarono all’arresto, la tortura o l’uccisione di centinaia di antifascisti, e non possiamo neppure muovere a compassione di fronte a storie di profonda povertà fisica e mentale che spinsero spesso tante donne a diventare “amanti dei tedeschi”. Possiamo però cercare di contestualizzare e capire, quanto la miseria e la umana condizione possano spingere donne e uomini a compiere gesti così ferali.
Le due donne sono per altro già condannate dal popolo – e lo leggiamo chiaramente dalle testimonianze riportate ai carabinieri – per avere avuto rapporti con i tedeschi. E se leggiamo bene gli atti notiamo che sono altre donne che si scagliano contro le due “collaborazioniste”, ponendo in campo non solo le piccole gelosie personali, ma lo sgretolamento e il crollo dell’ideologia di regime. Quella che si sfilaccia è la figura della donna sorta nel tentativo di creare una “civiltà fascista” che disegnava fin dalla fanciullezza per lei, un ruolo materno di genitrice e custode del focolare domestico; lontana dalla politica, dalle ideologie e con una sessualità di assoluta proprietà da parte, prima del padre, e poi del marito.
Le donne che escono da questo recinto vanno ad occupare uno spazio di indecenza e inopportunità che del resto era proprio di quelle stesse che finivano nelle case di tolleranza. Dunque al processo per il delitto di Leila le due donne raffigurano e incarnano l’esempio del superamento del confine e l’assunzione di un ruolo diverso da quello voluto da regime fascista italiano.
La donna dietro ai fornelli è accettata, seppur sempre in posizione subalterna e prona, mentre le “collaborazioniste” diventano traditrici delle comunità intere. A processo quindi la storia e non solo due donne.
Con il dibattimento troviamo in primo piano due giovani di dubbie moralità, donne che si vendono al fascista o al tedesco, donne amanti del lusso, donne voluttuose e di facili costumi, ma in realtà si porta alla sbarra anche uno spazio di libertà che la donna ha avuto nel sovvertimento, che la guerra civile ha spinto in una società precostituita. Con la caduta del regime, con la forzata e spesso violenta libertà dai vincoli familiari, con il passaggio della guerra con lo straniero occupante, è la donna che trova nuovamente – come già accaduto durante la Grande guerra – il proprio spazio. Seppur angusto, difficile, precario e pericoloso, ha in mano per il terribile impeto che solo le guerre possono donare a chi rimane solo, il proprio destino.
E leggendo gli atti processuali incontriamo, come su un palcoscenico di un teatro che narra di un dramma, i volti delle differenti sfaccettature. Tutti ruoli declinati al femminile. Tutte donne sole. La vittima, Leila, forse violata e assassinata perché accusata di precise, e oggi a noi sconosciute responsabilità, o forse perché anche per lei bastò poco, quel poco o meno al quale fa riferimento l’avvocato della difesa.
La madre che riporta dello strano fatto del “fidanzato” tedesco, quasi celato dagli altri, inascoltato e ignorato dalla corte. Eppure afferma: «Mia figlia non era una partigiana anzi una tedescofila in quanto amoreggiava con un tedesco e col quale aveva corrispondenza». Chissà per quale recondito motivo cercava di difendere Leila legandola ad un nemico.
La prima ragazza accusata. Giovanissima – al momento dei fatti non aveva compito 18 anni – che diventa, per bocca di una testimone, «spia dell’invasore tedesco con il quale stava insieme dando anche pubblico scandalo morale».
L’altra che nata nel 1917 sottolinea di essere stata abbandonata dal marito e che, con tre figli a carico, ha dovuto, per poterli sostenere, adattarsi a fare la prostituta.
Le testimoni che parlano degli abiti di Leila, della pubblicità del cinema – come una colpa l’essersi fermata a guardare i cartelloni dei film -, delle frasi riferite con cattiveria come «venni invitata a farmi gli affari miei».
Sono chiare le discriminazioni, le censure, le ignoranze che affiorano durante il teatrale dibattimento. La gelosia e l’invidia, ma anche la maldicenza e le dicerie e al termine rimangono solo macerie. Come quelle della scuola di Nozzano dove i tedeschi torturarono, stuprarono, assassinarono, cercando di vendicare l’attesa della Liberazione da parte degli italiani. Lasciandosi dietro azioni terroristiche contro civili, donne, sacerdoti, affinché il male non fosse dimenticato e che anche l’elaborazione del dramma debba praticare strade impercorribili e impossibili da dimenticare. Ecco Leila Farnocchia, suo malgrado, entra così nella grande storia diventandone protagonista assoluta. Da non dimenticare.