Renzo Paternoster ci parla del male politico, del nemico e del carnefice

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Le chiedo subito di presentarsi da solo.
Mi chiamo Renzo Paternoster, sono nato a Gravina in Puglia nel 1965. Dopo aver frequentato la facoltà di Architettura, ho abbracciato gli studi politici e sociali, laureandomi in Scienze Politiche. Dopo una breve parentesi nell’insegnamento, ho deciso di dedicarmi a tempo pieno alla ricerca e alla divulgazione scientifica. Dal 2004 faccio parte della redazione della rivista “Storia in Network” e sono referee e autore per
la rivista scientifica “Filosofia e politica. Rivista di studi filosofici, politici e sociali”. Collaboro con altre riviste, sia scientifiche sia di divulgazione.

Dando un’occhiata ai titoli dei suoi lavori, ricorre il tema della violenza…
Si la maggior parte dei saggi brevi e tutti i libri che ho scritto affrontano il tema della violenza, ma politica. Guerrocrazia. Storia e cultura della politica armata, (Roma 2014), La politica del Terrore. Il Terrorismo: storia, concetti, metodi, (Roma 2015), Campi. Deportare e concentrare: la dimensione politica dell’esclusione, (Roma 2017), sono i titoli dei miei libri, lavori di ricerca, appunto, sulla violenza politica.

Perché proprio la violenza politica?
Tratto questi temi per stimolare al rispetto dei diritti umani.

Il suo ultimo lavoro si intitola “La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza”, edito da Tralerighe libri…
Si, è un’indagine multidisciplinare sulla natura del male politico, sui modi concreti in cui esso si è manifestato e sulle origini delle pratiche che l’hanno reso sempre più crudele. Più di un libro di storia, infatti è un lavoro in cui la storia è supportata dall’antropologia, dalla psicologia e dalla filosofia politica, per meglio indagare sulla politica che diventa criminale.

Ma è così importante il nemico da dedicargli un libro?
Certamente, il nemico è essenziale nelle relazioni politiche e sociali… così importante che se non c’è lo si inventa. Avere a disposizione un nemico crea gruppo, consentendo di veicolare le insoddisfazioni, i timori e le paure di un raggruppamento umano. Il nemico diventa infatti spesso il capro espiatorio di una situazione di crisi che si sta vivendo come individuo e/o come gruppo. Così identificare un nemico, vero o presunto, e condividerlo con altri crea, come appena detto, “gruppo”, rendendo quest’ultimo più “manovrabile”.

Nel suo libro parla di “banalità del bene”, contrapponendolo alla “banalità del male” di Hannah Arendt.
Ho scritto nel libro che il Male diventa banale nella misura in cui il Bene è banale. Mi spiego: è la considerazione soggettiva di un Bene a manifestarsi in un Male che sembrerebbe banale. I nazisti nelle loro pratiche criminali contro gli ebrei, i rom, i sinti, gli omosessuali e altre categorie di persone non si posero mai il problema della giustificazione del Male che stavano elargendo, poiché nella loro folle visione del mondo quello era solo un “bene”… per i tedeschi. Ecco: “prima i tedeschi”, prima la “comunità del noi”. Tutto comincia così! Un leitmotiv della politica per acquisire consensi, creando nemici fittizi per “fare gruppo” e convogliare la volontà popolare verso un progetto politico.

Quando una politica si fa violenta?
La politica si fa violenta quando un’identità si ideologizza, assolutizzandosi. Crea così un confine netto da “noi” e “loro”. “Noi”, la comunità che si riconosce in un progetto politico-sociale; “loro” gli estranei a questa comunità, gli elementi perturbatori di un progetto politico o di una identità nazionale. Così l’estraneità geografica, linguistica o religiosa, si associa inevitabilmente a quella mentale e l’“altro” diventa qualcuno da
cui tutelarsi, per questo va emarginato e può essere rinchiuso in spazi specifici (come i campi di internamento o di concentramento), ma anche torturato, violato sessualmente, sino a sterminarlo.

Arriviamo così al trattamento riservato al nemico, descritto nei vari capitoli che seguono nel libro.
Ho dedicato i capitoli dal terzo all’ottavo proprio al trattamento riservato al nemico, una disamina dei modi concreti, dalla discriminazione alla tortura, dall’internamento alle violenze sessuali riservate specialmente alle donne del nemico, sino allo sterminio. Quindi modi concreti in cui la violenza politica si è manifestata o continua a rivelarsi.
Anche il corpo del nemico ucciso subisce un, diciamo, “trattamento” particolare: se il corpo morto dell’amico è rispettato, seppellito con tutti gli onori, quello del nemico è vilipeso, seppellito in fosse comune, a volte fatto sparire, o dissolto completamente. Il corpo del nemico può diventare anche arma che uccide. È il caso studiato nell’ottavo capitolo, quello dei moderni kamikaze che compiono un gesto inscrivibile in un processo articolato, che comprende una concezione particolare del rapporto tra materialità e trascendenza, tra morte e vita.

Come si diventa carnefici?
I carnefici sono persone normali, nel senso che le atrocità della politica non dipendono dalla psicopatologia di chi li attua: carnefici non si nasce, si diventa… e si diventa grazie a una forte deculturazione che porta alla rottura con gli universi morali. Ho trattato questo nell’epilogo del mio lavoro: la politica crea esecutori apatici, gli operai del crimine, attraverso un processo che porta all’individuazione di un nemico, passando
alla propaganda contro di esso, poi ancora alla sua deumanizzazione, pratica che porta all’esclusione morale delle vittime e al disimpegno morale dei carnefici, giustificando la violenza.

Una domanda… diciamo più personale. Lei ha cambiato editore, perché?
Ho conosciuto il dott. Andrea Giannasi, editore e direttore editoriale di Tralerighe libri, e subito mi ha affascinato la sua grande erudizione. Soprattutto ho avuto la percezione di avere di fronte una persona innamorata della cultura, quella “pura”, quella immune da pregiudizi e stereotipi. Una persona che non solo vuole vendere i libri che pubblica, come è ovvio che sia, ma che partecipa attivamente a ogni progetto editoriale. Non mi sono sbagliato: in questi mesi di collaborazione l’editore e i suoi collaboratori mi sono
stati vicini, mi hanno reso partecipe sia alla fase di progettazione della stampa del libro sia al suo “lancio” nel vasto mondo degli editi, creando le condizioni per far incontrare subito il mio libro con i lettori.

Ritorno, per concludere questa nostra chiacchierata, su una sua risposta: lei tratta il tema della violenza politica per stimolare al rispetto dei diritti umani. Quanto può stimolare a questo il suo libro?
Ho cercato in questo lavoro di creare le condizioni per impegnare la curiosità intellettuale del lettore, per aiutarlo a ripensare criticamente al nostro tempo, per non farlo rassegnare all’orrore. Per questo ho cercato di allontanare il lettore dalla tirannide dei luoghi comuni, invitandolo al dubbio, alla messa in discussione di eventi che sono stati spesso strumentalizzati. Per questo ho chiesto ancora al lettore di avvicinarsi e riscoprire l’emozione della vergogna attraverso il ricordo, che fa prendere consapevolezza di quello che “si può diventare”, proponendo anche una “pedagogia del dolore” che, attraverso l’empatia, ci avvicini ai perseguitati … perché ognuno di noi potrebbe diventare vittima di un potere criminale. Tutto questo per comprendere nel presente i segni anticipatori di un passato da non riproporre e scardinare in anticipo eventuali ricadute, perché — come già detto — carnefici non si nasce, si diventa… e chiunque può diventarlo!

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