“Sul declino della globalizzazione” il saggio di William Bavone (Tralerighe)

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Abbiamo incontrato William Bavone autore del saggio “Sul declino della globalizzazione (Tra le Righe Libri, 2017). Laureato in Economia Aziendale presso l’Università del Sannio-Benevento, collabora con diverse riviste di geopolitica italiane e argentine. E’ analista per la rivista Scenari Internazionali. E’ autore dei saggi Le rivolte gattopardiane (Anteo 2012), vincitore del Premio Nabokov 2014; Sulle tracce di Simón Bolívar (Anteo – 2014); Appunti di geopolitica (Arduino Sacco – 2014); Eurosisma (Castelvecchi – 2016).

Il suo saggio inizia con una impietosa visita a Expo Milano 2015 che per sei mesi ha esposto al mondo il meglio – o il peggio – del nostro pianeta. Perchè iniziare da un evento dove forse le intenzione sono state migliori dei risultati?

Viviamo in un mondo in cui tutto può essere monetizzato e ancor peggio è lo stesso denaro ad essere fonte di reddito a prescindere dai beni reali. Expo 2015 per certi versi ne è l’esempio più vivo in quanto, avendo ad oggetto un tema di rilevanza mondiale e fuori dalle logiche commerciali, in vero è stato un luna park del mondo globalizzato. Se escludiamo poche eccezioni, l’intera area non era altro che un incubatore di business. Qualcuno ha inteso fare cassa subito tra gadget etnici e ristorazione, altri invece hanno utilizzato l’evento come spot per attrarre flussi turistici in patria. E l’idea di nutrire il pianeta? di certo non è un business redditizio e infatti le aziende del settore agroindustriale hanno colto l’occasione per commercializzare i propri brand ed i paesi espositori hanno attuato una competizione su chi avesse più ricchezze da sfoggiare. Pochi veri contenuti hanno arricchito questo momento che in realtà doveva portare al confronto costruttivo per una soluzione condivisibile e non mi risulta che oggi si viva in un mondo migliore. Nutrire il pianeta è uno spot ormai del 2015 e ora il luna park ha tolto le tende per approdare nella nuova piazza internazionale in cui fare business con un nuovo slogan pubblicitario. E’ purtroppo la realtà di un mondo che giorno dopo giorno noi stessi contribuiamo a costruire che lo ammettiamo oppure no. Expo 2015 quindi non è altro che l’evento mediatico più rilevante dei tre anni (2014-2016) analizzati all’interno di questo libro e per questo non poteva che fare d’apri pista all’analisi di eventi e fatti forse meno conosciuti e/o considerati, ma che hanno allo stesso tempo rilevanza fondamentale sul futuro visto che è oggi l’interazione tra paesi a determinare gran parte degli eventi all’interno di un singolo paese.

L’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine del bipolarismo geopolitico sta tentando di costruire una propria identità partendo dall’unione monetaria. Quali le fragilità che evidenzia e come inquadra ed esamina la scelta della Brexit britannica?

La fragilità è proprio nell’ostinazione a voler puntare tutto su un’unione monetaria e finanziaria ancor prima di accettare di riconoscersi. Mi spiego: l’Europa ha avuto nel suo progetto una pericolosa sterzata con il Trattato di Maastricht nel ’92 abbracciando senza pochi convenevoli l’idea di una moneta unica a prescindere dalle diversità strutturali delle distinte economie che ne avessero dovuto far parte. Tutto veniva indicizzato per il raggiungimento forzato dell’obiettivo monetario che non era più strumento di regolamentazione degli scambi tra stati bensì moneta legale in ogni singolo membro di tale unione. Un progetto che aveva la piena benedizione di Londra che tuttavia ha declinato l’invito a farne parte mantenendo pertanto le politiche monetarie quale strumento attivo nelle proprie politiche economiche. L’Europa quindi ha messo da parte il mercato unico in favore di una finanza unica, ma a che scopo? La Guerra Fredda non ha fatto che spingerci a divenire da continente colonizzatore a colonia del polo geopolitico che ha finanziato monetariamente la nostra ricostruzione post Seconda Guerra Mondiale. Scacco matto e la nostra partita a scacchi è tutt’oggi persa considerando che il nostro mercato finanziario è legato strettamente a quello statunitense. La crisi finanziaria del 2008 ne è la prova vivida, ma se si vogliono altri indizi basta guardare a quanto si faccia affidamento ai dettami di FMI e BM e dove questi organi hanno sede o ancora, quanta voce in capitolo sullo stato di salute di un paese hanno agenzie di rating private come Standard & Poor’s. Ripeto: agenzie private con interessi privati e che hanno contribuito attivamente alla bolla finanziaria del 2008. Poi vi è il Brexit, una scelta impulsiva popolare alla quale gli oligarchi inglesi non erano affatto preparati e alla quale molto probabilmente gli stessi inglesi non erano preparati. Però è successo e forse ci troviamo nel momento storico più importante e forse irripetibile per l’Europa nel quale è possibile fare l’Unione. Con la Brexit viene meno il ponte politico di unione tra nuovo e vecchio continente e l’ascesa di Trump e del suo isolazionismo creano i presupposti di un’autonomia europea senza precedenti. Potrebbe essere l’occasione per un’importante riforma del modello ma finché BCE continua a seguire il FMI e finché i paesi membri dell’unione continuano a coltivare interessi nazionalistici non stante l’Unione, nulla sarà possibile e questa flebile possibilità di indipendenza europea lascerà il posto al prossimo colonizzatore o ad una pericolosa frammentazione nazionalistica.

L’America Latina da almeno due secoli rappresenta la bella incompiuta. Condizionata prima dal colonialismo europeo, poi dal controllo nordamericano, appare come un continente sempre in divenire. Le crisi di Argentina, Brasile, Venezuela e altri paesi dove possono condurre l’America Latina?

In realtà l’America Latina dai moti indipendentisti di inizio ‘800 ad oggi non è stata altro che l’area test della globalizzazione. Luogo in cui gli Stati Uniti hanno affinato le proprie tecniche di influenza egemone e forse proprio questo continente può essere allo stesso tempo l’incubatore di un’antidoto. L’ultimo decennio (e poco più) è stato molto interessante da questo punto di vista: la proposta socialista, il SUCRE (moneta unica utilizzata per gli scambi commerciali tra paesi in seno all’Alleanza Bolivariana per le Americhe), il sistema logistico uruguayano, lo sviluppo di zone franche per contenere l’invasione delle multinazionali straniere e molto altro costituiscono fonte di riflessione, ma anche critica. Infatti non parliamo di modelli compiuti bensì in continua elaborazione dove interessi interni ed esterni purtroppo non contribuisco affatto al naturale proseguo. Molto, in senso negativo, è dato dall’alto livello di corruzione, ma non bisogna mai sottovalutare gli interessi di altri paesi. Nella sua domanda vengono citati tre paesi, Argentina, Brasile e Venezuela, fondamentali nel continente che hanno saputo dimostrare tutto il potenziale e i limiti dei nuovi modelli socialisti sviluppati nella regione. Tutti e tre sono accomunati da un errore condiviso ossia la fusione del progetto politico con la singola figura posta alla leadership del movimento politico: lulismo, kirchnerismo e chavismo rispettivamente hanno costituito anche il tallone d’Achille della proiezione del progetto nel lungo periodo. Infatti con il venir meno della candidatura delle figure carismatiche di Cristina Kirchner, Lula da Silva e Hugo Chavez, è venuto meno anche il favore popolare. Cosa attenderci? il 2018 sarà già indicativo con le elezioni presidenziali in Brasile e Venezuela, ma a prescindere dall’esito di queste controverse elezioni resta ferma la convinzione che è in America Latina che si svilupperà l’antidoto contro questa finanziarizzazione del mercato e contro l’iperliberismo economico così come, sempre in America Latina oggi come ieri e sicuramente nel prossimo futuro, verranno affinate le strategie del sistema per garantirsi la sopravvivenza a livello planetario.

Il titolo del suo libro è inequivocabile: il declino della globalizzazione. Ma si tratta di fine o di semplice flessione per ripresentarsi sotto nuove vesti, ma sempre come modello del consumo e del capitalismo?

Come detto, il sistema è alla ricerca a sua volta di un antidoto utile a garantirsi l’immunità dal cambiamento in atto. La condizione di “unipolarismo” non è affatto naturale e ovviamente prima o tardi nuovi poli geopolitici cercheranno una propria collocazione di primo piano nello scacchiere globale. Russia e Cina ne sono l’esempio. Lo slittamento al multipolarismo mette, chi ha avuto sino ad oggi l’egemonia incontrastata, nella situazione di attuare dei veri e propri colpi di coda in difesa del proprio status. E’ naturale, ma difficilmente basterà ad evitare la condivisione della leadership. Il modello capitalistico, del libero mercato o del mercato globale che dir si voglia ha dimostrato tutta la sua vulnerabilità a se stesso. Parliamo di un modello instabile per il quale le redini sono passate dalle nazioni coofondatrici (Inghilterra e Stati Uniti) ad un’unica forza egemone (USA) e da questa nell’immediato alle multinazionali che hanno saputo sfruttare la posizione di potenza a proprio vantaggio. E con questo torniamo in America Latina dove la posizione di potenza di Washington venne sfruttata dalla United Fruit Corporation che riuscì ad impadronirsi del Centro America e con questa materia prima ad invadere il mercato mondiale. Un esempio vecchio più di quasi un secolo, ma dal quale ha una repentina ascesa il modello che oggi abbiamo fatto nostro. Oggi la Casa Bianca non è altro che l’esecutore politico delle lobby più forti del mondo: armi, energia, farmaceutica, agroindustria, finanza e droga sfruttano l’egemonia politica, economica e militare della loro “sede legale” riuscendo a dislocare a basso costo e con grandi margini di profitto le proprie “sedi operative” in tutto il mondo.

Infine la sua analisi incrocia i grandi temi del nuovo secolo: la crisi del socialismo reale; la deriva populista come il trionfo di Trump; le nuove dinamiche energetiche; il confronto con il mondo islamico. Le Americhe come possono contribuire a ridefinire nuovi confini geopolitici?

Ripeto: l’America Latina è stata luogo di sperimentazione dell’egemonia della globalizzazione e credo che è li che potrà essere trovato l’antidoto. Occorre pazienza e lavoro perchè quanto sin qui visto, da Chavez in poi, può essere considerata una scintilla, importante sì, ma ancora insufficiente. Occorre tempo e molto probabilmente occorrono nuovi fallimenti. Si badi che con ciò non affermo che il socialismo è la strada ne tanto meno che lo stesso non lo sia. In America Latina la cosa più interessante è che dopo secoli è il popolo ad acquisire consapevolezza. Il popolo partecipa e scende in piazza senza timore. E’ la consapevolezza del popolo, il cambiamento che giunge dal basso a fare la vera differenza. Finché si resta in attesa di una soluzione che giunga dall’alto, gli interessi di pochi prevarranno sul tutto e ciò non può che alimentare le condizioni di conflitto. Conflitti che a loro volta hanno dei “piccoli” effetti collaterali come gli estremisti spesso sfruttati per raggiungere il proprio scopo e poi abbandonati come scorie radioattive nel giardino del vicino. Pensate se in Libia si cooperasse per la ricostruzione di uno stato autosufficiente a livello economico e produttivo e pensate se la stessa cosa la si facesse in altri luoghi dell’Africa. Pensate se si pagasse il giusto prezzo dell’energia e delle risorse minerarie appartenenti ad altri paesi e soprattutto pensate se questi paesi fossero sovrani sulle proprie risorse. Non vi sarebbe tanta povertà così come la necessità di migrare, ma tutto ciò non è affatto generatore di profitto e quindi meglio sopportare gli effetti collaterali di un modello ricco di distorsioni e asimmetrie in attesa di un Expo che parli di cooperazione per lo sviluppo…ma di chi?

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