Quando uscì dal carcere di Regina Coeli nel giugno del 1944, dopo aver subìto torture da parte delle SS in via Tasso, lo scrittore lucchese Guglielmo Petroni scrisse: “Ero libero e non ne sentivo nessuna soddisfazione […] ero più ricco tra quelle mura brevi e senza scampo; là c’era qualche cosa in me che ora si è dileguato. Ora sono nuovamente tra gli uomini”.
Il senso di smarrimento tradotto in “quell’immenso rotolare attorno a noi di guerre, di tragedie sociali, che non era soltanto attorno a noi, ma dentro il più segreto della nostra vita, in mezzo agli interessi più intimi”.
Con il saggio “La narrativa di Guglielmo Petroni” di Marina Margioni viene disegnato – tra gli altri capitoli – il ruolo dello scrittore lucchese nella letteratura resistenziale. Ruolo che a distanza di settanta anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e di fronte allo smarrimento socio-culturale contemporaneo, si riscopre attuale e pressante.
Autore de “Il mondo è una prigione”, Petroni più di altri riesce ad affrontare la questione del “raccontare la lotta di liberazione”, senza cadere vittima dell’elemento diaristico. Diventando testimone e non solamente vittima. Entrando nella psicologia di coloro che scelsero la via forse più difficile dopo l’armistizio con la nascita della Repubblica Sociale da una parte e la scelta della galassia partigiana dall’altra.
Guglielmo Petroni come Primo Levi è oggi da considerarsi, sia per il carattere della narrazione, sia per la forma stilistica, l’autore che narra attraverso quello che Camus definì “il prezzo della parola”, la storia, con l’esigenza di raccontare agli “altri”, di fare gli “altri” partecipi di quella tragica esperienza vissuta da lui e dagli uomini del suo tempo.
Per meglio far comprendere al lettore i temi espressi riportiamo alcune pagine del saggio:
“Quando il conflitto mondiale non era ancora terminato, la situazione del nuovo letterato e delle funzioni che doveva assumersi furono direttamente suggerite da una lettera-testamento di uno degli eroi italiani della Resistenza, di un giovane che sacrificò la sua vita, in nome della libertà: Giaime Pintor. In questo documento scritto solo tre giorni prima della sua morte (Pintor cadde su una mina tedesca a Castelnuovo Volturno), egli rovesciò completamente il giudizio che Renato Serra aveva dato, all’inizio del secolo, nello scritto Esame di coscienza di un letterato: «[La guerra] non cambia i valori artistici e non li crea: non cambia nulla nell’universo morale».
La posizione di Serra contro la concezione etica della guerra non poteva essere più esplicita. Essa è semplicemente «una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile»; un evento sicuramente straordinario, che tuttavia non riesce a mutare nulla nella vita, neppure nella letteratura, rappresentando soltanto un sacrificio che si fa, un dovere che si adempie.
La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati e che saranno: non vi aggiunge, non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Non migliora, non redime, non cancella. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati.
Vicino alle posizioni di Serra fu Carlo Bo, che in un articolo del 1950, scrisse: «La guerra resta un pretesto, abbastanza comodo e facile, per occupare una immaginazione stanca, soprattutto per trovare una ragione a un movimento che in apparenza non ha nessuna soluzione».
Pintor, così come tutti quei giovani scrittori impegnati in prima persona nella lotta, dichiarò che essa in realtà aveva cambiato, stravolgendola, ogni cosa e in primo luogo loro stessi:
[La guerra] ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento. […] Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari […] Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile. […] a un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve saper prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento… Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti.
Anche Salvatore Quasimodo affermò, nel Discorso sulla poesia, che la guerra «muta la vita morale d’un popolo, e l’uomo, al suo ritorno, non trova più misure di certezza in un “modus” di vita interno, dimenticato o ironizzato durante le sue prove con la morte».
Nacque a livello collettivo «la coscienza di una rottura col passato politico e sociale», con la diretta conseguenza di ricercare il nuovo tanto sul piano dei contenuti quanto su quello delle forme linguistiche. Così, analogamente a quanto era accaduto con la Prima guerra mondiale, anche la seconda provocò una ricchissima produzione di testimonianze, autobiografie, diari, racconti e romanzi ispirati a quegli anni così drammatici.
La letteratura cominciò a prendere la strada dell’impegno politico diretto, mentre la coscienza dell’uomo, col suo bisogno di ricordare, si tradusse nell’urgente necessità di fissare in un documento narrativo tutta quella tragedia dalle enormi proporzioni.
Oltre ai romanzi (basti ricordare le opere più note: da Uomini e no di Vittorini a Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi al Quartiere di Pratolini, da L’Agnese va a morire di Renata Viganò alla Casa in collina di Pavese), si assistette ad una grande proliferazione di cronache, registrazioni di eventi, soprattutto dalla struttura diaristica.
In Italia, quasi tutte le opere apparse sulla guerra obbedirono a una esigenza personale di confessione prima che al proposito di fare opera d’arte o di professione politica. Bastava semplicemente attingere alle fonti della propria sofferenza, delle ferite della memoria, per dare significato di documento collettivo alle numerose pagine scritte sulla guerra, che diventò, così, il Leitmotiv che percorse per molti anni l’intera produzione narrativa e anche lirica. Il dovere di dare testimonianza del danno irreparabile subíto, che trovava eco nelle esperienze e nelle coscienze di tutti; l’obbligo morale di trasmetterne e di mantenerne viva la memoria, portarono ad un’autentica tensione che accomunò tutte le opere.
La letteratura ispirata ai fatti, alle idee, alle passioni della Resistenza «fu assai spesso il frutto d’un empito epico, di un’immediata necessità da parte di alcuni di coloro che presero parte attiva a quei fatti; di fermare sulla carta quello che per essi era stato attimo fuggente e glorioso di una lotta e di uno stato d’animo».
Sembrò che la vita fosse lì per essere conosciuta attraverso il racconto; la libertà duramente conquistata con la Resistenza si riconobbe e si affermò anche in questa nuova possibilità di raccontare, nell’aprirsi di una comunicazione immediata, vitale.
Ricordiamo allora l’importante riflessione che fece Italo Calvino nella Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno:
L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani – che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano – non ce ne sentivamo schiacciati, vinti, “bruciati”, ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità. Non era facile ottimismo, però, o gratuita euforia; tutt’altro: quello di cui ci sentivamo depositari era un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero. […] L’essere usciti da un’esperienza-guerra, guerra civile- che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche, avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare […]. […] la carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere […] noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo.
Ogni testo fu pubblicato con un unico intento, un’unica volontà: raccontare per non dimenticare, affinché si conservasse per sempre la vera essenza della lotta partigiana. Fenomeno sicuramente complesso e articolato, essa difficilmente si lasciò inquadrare in una definizione: come tutti gli eventi storici divenuti oggetti storiografici, appare in costante movimento sia sul piano reale, ovvero di chi lo ha vissuto personalmente, sia su quello della rappresentazione, ovvero della memoria e delle narrazioni che ne sono state fatte. Si configurò come momento essenziale del riscatto italiano dopo la disfatta del fascismo, per una nuova e più giusta ricostruzione dello Stato e della nazione.
Moto d’opposizione morale e ideale al fascismo: questo fu la Resistenza in Italia, e non solo insurrezione armata: «La Resistenza significò […] strappare le radici alla malapianta del fascismo […]».
L’antifascismo, collante e cuore propulsivo del movimento resistenziale, insieme alla lotta partigiana contribuirono in modo significativo alla sconfitta del nazismo e del fascismo, affiancando la guerra condotta dagli eserciti e dai paesi alleati con sacrifici enormi, e circa cinquanta milioni di lutti.
Raccontare ed esorcizzare qualcosa di terribile e di totalizzante come la guerra fu la conseguenza naturale, che si ebbe dopo quella drammatica esperienza. Non solo: anche se per pochi anni, tutte le arti furono investite dall’ondata neorealista, come ad esempio il cinema. Basti pensare ai film di Vittorio De Sica (Sciuscià, 1946; Ladri di biciclette, 1948; Miracolo a Milano, 1951), Roberto Rossellini (Roma città aperta, 1945; Paisà, 1946), Luchino Visconti (Ossessione, 1943; La terra trema, 1948).
In quel primo momento furono opere impetuose, calde ancora di un appassionato fervore, ma presentarono tutte il difetto organico «di opere scaturite dall’urgere di una materia non sottoposta a quel necessario periodo di ripensamento e di rielaborazione, a quel distacco, in una parola che è condizione imprescindibile per la nascita di un afflato poetico».
Il riferire fedelmente i fatti, obbedendo solamente alla realtà dell’esperienza vissuta, è stato considerato dalla critica letteraria come il presupposto fondamentale della letteratura neorealistica. Nella enorme carica di comunicazione immediata, avente come scopo principale la chiarezza della testimonianza, fu del tutto naturale la scelta del genere narrativo come il più adatto a una maggiore diffusione e a una migliore precisione del discorso; così come fu inevitabile che il moto dichiarativo di esperienze vissute si traducesse nelle forme della più semplice e fedele riproduzione della realtà, da raffigurare nella sua pienezza. Gli strumenti di cui si servì furono costituiti da un’iniziale decisione mimetica rispetto al fatto, senza residui, né zone d’ombra, ottenibile per mezzo di una trascrizione semplificata dell’evento nella sua fenomenicità apparente. Il Neorealismo nacque innanzitutto dal trauma della guerra, dall’esperienza antifascista della lotta di liberazione; nacque come autentico bisogno di partecipazione, per una presa diretta sul reale. Importanti le parole che Petroni scrisse a tal proposito in un articolo del 1957:
Va bene, si è detto “neorealismo”: ma che cosa è mai? Dobbiamo considerarlo un giustificato sopravvento della cronaca, un giustificatissimo mezzo per ricreare un rapporto tra le cose vere e più vicine alla nostra esistenza attuale, una discutibile involuzione verso forme scontate della narrativa tradizionale? Evidentemente molte cose assieme, ma non “una”; anche per il neorealismo dobbiamo parlare di uno stato d’animo come, del resto, è stato fatto più volte.
“Uno stato d’animo”, che ricorda affermazioni simili fatte da altri scrittori, come ad esempio Calvino, che nella già citata Introduzione al Sentiero dei nidi di ragno, fece la seguente riflessione riguardo il suo testo: «Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale di un’epoca».
Se il Neorealismo «non fu una scuola – come dichiarò Calvino – ma un insieme di voci, in gran parte periferiche» fu, dunque, impossibile parlare di una poetica comune e di codificazioni letterarie.
Della stessa opinione, anche un altro importante scrittore come Vittorini, il quale scrisse: «[…] in sostanza tu hai tanti neorealismi quanti sono i principali narratori […]».
Nacque a livello collettivo la coscienza di una profonda rottura col passato politico e sociale: l’umanità tutta aveva assistito e partecipato a grandi fatti, che ebbero come conseguenza la necessità impellente di raccontarli.
L’opposizione divenne quella tra resistenti e fascisti, uomini integri e semiuomini o belve, tra popolani e borghesi, tra campagna e città; temi ricorrenti come Natura-Uomo, solidarietà degli oppressi e degli umili, fede nella rinascita; si trattò di un’antitesi manichea, che ebbe le sue origini nella stampa clandestina.
La realtà si mostrò in quegli anni più ricca di ogni fantasia letteraria, per cui la fame di verità e l’esigenza dell’impegno furono gli ingredienti indispensabili per una presa diretta sul reale.
Spesso il risultato fu quello di una rappresentazione troppo edificante e celebrativa del mondo popolare, visto come l’unico depositario di tutti i valori positivi, di una integrità morale da opporre alla degenerazione della borghesia (la tendenza al populismo fu uno dei limiti più grandi del Neorealismo).
Nasce proprio da questo carattere proclamato di aderenza al reale, il rinnovato interesse per il dialetto in funzione di documento, come sostegno e garanzia della piena genuinità del parlato.
La trascrizione del fatto è sincera e realistica se porta con sé la dimensione esatta del mondo che quei fatti e quei discorsi avevano espresso, cioè il contesto popolare nella sua fedeltà ancora a quello che viene definito come lo specifico modo di espressione, il dialetto, contrapposto all’italiano come lingua dotta, di classe, estranea.
La relazione tra realtà e letteratura si risolvette riducendo quest’ultima a una mimesi della prima, la più fedele e riproduttiva che fosse possibile.
La costruzione dei testi risentì del fatto che in quella letteratura il prius era il raccontare fatti, prima ancora di ogni finalità persuasiva o retorica; l’ordine dei fatti, o meglio l’ordine in cui i fatti si presentarono alla memoria fu anche il filo narrativo. Appunti e memoria furono evidentemente complementari in tale operazione. L’aspirazione di questi scrittori a far parlare la realtà ha profonde conseguenze sul piano linguistico dei testi.
Se la lingua doveva realizzare «una compiuta mimesi del reale», l’adozione di un linguaggio comune s’impose naturalmente; un linguaggio a volte persino stilisticamente povero, volutamente antiletterario (fu proprio questo un altro dei limiti che ebbe il Neorealismo), e per far questo si servì di proposizioni brevi che scandissero le fasi dell’azione.
Descrizioni, uso del dialetto e dialoghi, che vivono la concreta durezza della storia si cimentano, nel libro di testimonianza di Petroni, solo marginalmente, in mimesi dialettali, come nel caso d’«una specie di uomo miserevole», accusato d’aver strappato manifesti:
«Perché lo hai strappato?»
«Così».
«Che c’era stampato?»
«C’era, ci stava… ce stava un soldato. Aspettavo il mio… il mio cognato all’angolo della strada».
«Ma perché lo strappavi?»
«Ih, ih, iih». Rideva senza rispondere, con la bocca umida e cascante mezzo coperta dalla barba lunga. (p. 55)
E poi dopo, in via Tasso:
«Aho! guagliò, che facimmo?».
«E va bè, come volete voi, a piacer vostro». (pp. 96-97)
Si può affermare che ne Il mondo è una prigione convivano due piani di realtà: in uno si collocano tutti i personaggi incontrati, – compagni di cella, fascisti, tedeschi, commissari – e i fatti vissuti – la lotta per la liberazione, l’arresto, gli incontri, le vessazioni, la scarcerazione, il viaggio di ritorno alla città natale; nell’altro c’è il protagonista-scrittore che partecipa come dall’esterno, da un punto d’osservazione staccato, presente ai fatti, ai dialoghi, alle persone, ma nello stesso tempo chiuso a tutto, solo attento a registrarsi nei moti interni che la nuova realtà gli scatena dentro.
A questi due livelli di realtà corrispondono due livelli della scrittura: il primo, quello mimetico, intessuto di dialoghi di stampo “realistico”, sebbene mai eccedente in accentuazioni, ricco di descrizioni concrete, soprattutto nei racconti che di sé fanno i vari personaggi; il secondo che appartiene esclusivamente al protagonista-scrittore, dove a dominare è la riflessività, con una particolare attenzione alle generalizzazioni etico-metafisiche, e scritto in una lingua colta.
Gli ingredienti neorealistici sembrano tutti presenti: la memoria della guerra, della Resistenza, dei tedeschi, dei fascisti, del carcere, delle torture, della liberazione. Ma in Petroni tutto questo assunse un tono diverso, si elevò dal semplice rendiconto realistico, acritico e declamatorio, superandolo per intensità poetica e morale.
Egli prese le distanze da certi tipi di “memorie” che ritraevano solo azioni cruente, esibizioni gratuite di violenze, semplicistiche visioni manichee, privilegiando invece la sua moralità e tutto il suo mondo interiore, scrivendo così «un resoconto di grande probità intellettuale e morale».
Lo scrittore diede conto di quella crudezza, di quell’atrocità «senza mai sollevare il tono della voce»: l’ansia, la paura, il buio, la fame, l’orrore della morte e della prigione si filtrano in una visione quasi rasserenata di quell’esperienza, la visione di chi già dal suo caso ha tratto un senso più ampio, universale degli accadimenti. «La fantasia ha il compito di fremere dinanzi al ricordo di una esperienza travolgente che poteva sfociare in una retorica declamatoria».
Nel rifiuto d’ogni indugio, nella tensione continua all’essenziale, senza mai sconfinare nella facile retorica, nel saper restituire alla pagina un’autentica vena poetica insieme con una profonda dignità umana, in tutto questo, l’unica opera accostabile per tono a quella di Petroni, è Se questo è un uomo di Primo Levi.
[…] nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stato tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi.
Di questo scrittore, così come per Petroni, colpisce la sobrietà, l’estrema semplicità nel raccontare fatti ed eventi invece così drammatici, l’assenza d’emotività e rotorica, la lucidità di scrittura.
Affrontò l’argomento della deportazione, dei lager nazisti, in maniera fredda, distaccata, scientifica: «Nei confronti del popolo tedesco non si espresse mai in termini duri, vendicativi. Addirittura, aveva la capacità di ridere della sua stessa esperienza. […] Ecco, la cosa che mi stupì di più in Levi era l’enorme capacità di allegria e quel modo di sopravvivere nella tristezza più tragica».
Fu qualcosa di più e di diverso da un semplice libro di memorie: «I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevano esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori».
La chiarezza estrema dei fatti rese superfluo il commento, e la scrittura potè esercitarsi interamente nella fedeltà a ciò che l’autore aveva visto e sperimentato. La parola si fece aspra e dura, scarna ed essenziale la descrizione.
L’affabulazione della realtà, adottata da scrittori come Calvino e Fenoglio, fu una scelta narrativa decisamente distante da quella che intraprese Primo Levi. Egli percorse una strada diversa, che obbediva all’esigenza di raccontare agli “altri”, di fare gli “altri” partecipi di quella tragica esperienza vissuta da lui e dagli uomini del suo tempo. La sua pagina andava, dunque, sostenuta con il supporto continuo e insistente di una denuncia che non poteva limitarsi alla crudezza del fatto, ma doveva riconoscersi in un’esigenza di liberazione interiore, proprio come per Guglielmo Petroni.
Tale posizione assunta dai due autori comportò un discorso che inevitabilmente travalicava ancora una volta i confini del Neorealismo.
Fu per questo che la loro denuncia anticipò di alcuni anni l’indignazione di Beppe Fenoglio. Inoltre, ciò permise di inserire Primo Levi nel più vasto panorama della letteratura della Resistenza europea, francese in particolare, che attraverso alcuni dei suoi maggiori scrittori, Camus, Aragon, Eluard, proprio questo trauma improvviso della coscienza intese porre in rilievo.
Scriveva Albert Camus, negli anni della guerra partigiana in Francia: «Anche se molti scrittori, non hanno fatto molto per la Resistenza, noi diremo al contrario, che la Resistenza ha fatto molto per loro: ha loro insegnato “le prix de mots”. Rischiare la propria vita, per poco che possa valere, per far stampare un articolo, una poesia, un dialogo, questo significa apprendere il vero “prezzo della parola”».
Lo scrittore, scoprendo improvvisamente che le parole sono degli strumenti pesanti, carichi, fu naturalmente portato a impiegarle con misura. Proprio da Levi si apprese il risvolto più sensibile della lezione di Camus, soprattutto nei momenti in cui più aspra e dura deve farsi la parola, più scarna ed essenziale la descrizione: nel fermare sulla pagina i tempi cruciali della vita nel Lager, Guglielmo Petroni rifiutò ogni indugio, restituendo alla pagina quella sua dignità umana e civile. Descrisse così le sensazioni che provò il giorno in cui fu liberato e poté ritornare a casa:
Ma il 4 giugno, finalmente davvero libero, al momento di lasciare la prigione di Regina Coeli, […] ebbi tempo di considerare più largamente quella specie di smarrimento spirituale che per la seconda volta mi assaliva. Fuori della porta della prigione mi ero fermato per un attimo, aspettando da me quel tal respiro che allarga il petto quando si ritorna alla vita, quando si rivede il cielo e gli uomini dopo averli quasi per sempre perduti: avevo alzato gli occhi verso i tetti della città; il cielo era quello di Roma, perfetto; ma fu soltanto un profondo rammarico forse complicato. Mi accorsi che rimpiangevo violentemente le ore in cui la mia vita era incerta, insidiata ogni momento; rimpiangevo la fame, il buio e l’incertezza che, questa volta, lasciavo definitivamente dietro le mie spalle. Ero nuovamente libero per le strade di Roma, […] avevo sfuggito la morte, l’incertezza, la paura, come potevo non essere felice? Dovevo esserlo e lo volevo: ma l’inganno non resse. Camminavo in mezzo alla folla concitata, gli ultimi tedeschi fuggivano con i volti tetri, con le armi spianate, ma io sentivo ingigantire nel mio cuore il fastidio di tornare tra gli uomini; sentivo una fortissima attrazione per i giorni trascorsi nelle luride celle delle prigioni […]. (pp. 16-17)
Anche Levi, nel suo libro del 1961, La tregua, narrò la lunga odissea del ritorno in patria dei deportati, e raccontò di come, durante il viaggio di ritorno, fosse stato colto da molti dubbi, gli stessi che aveva Petroni:
Così per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti.
Un «alone pacato» di cui giustamente parla Felice Del Beccaro, sembra essere il tratto distintivo non solo del libro di Petroni che, anche per questo, lo allontana dalla cifra letteraria del Neorealismo, ma anche di Se questo è un uomo. Quest’opera di Levi terminava con l’esortazione a non dimenticare, e a trasmettere ai figli questa nozione basilare. La memoria s’imponeva come obbligo morale.
Mentre negli scritti neorealistici finora citati, l’oggettività fu irrompente, a scapito della soggettività, ne Il mondo è una prigione tutto ciò non avvenne. I due livelli, il soggettivo e l’oggettivo, sono entrambi presenti. Altra distanza, dunque, dal Neorealismo: la cruda realtà dei fatti, dei tanti episodi narrati, non travolge mai l’io del protagonista-intellettuale che racconta. Ciò che più premeva allo scrittore era la ricerca interiore, la riflessione su tutto quello che gli era capitato; è con questo intento che scrive il romanzo della Resistenza: per la «necessità di comprendere che cosa era stata per molti di noi quell’impulso alla rivolta, alla lotta contro il nazifascismo, alla attenzione per tutto ciò che consapevolmente o no preparava quel meraviglioso risveglio che generò la resistenza, la guerra di liberazione come generale contributo alla cancellazione delle dittature ed alle allucinanti ideologie di distruzione e di morte, che stravolgevano il senso stesso dell’esistenza umana».
Tratto da:
“La narrativa di Guglielmo Petroni. Tra realtà e memoria” di Marina Margioni (Tra le righe libri, 208 pagine, euro 15,00).